“LE LACRIME DI GIOBBE”

Seconda Resurrezione d.Cv. (Sospesi tra sacro e profano.)

Dedicata a “F.” e a tutti gli arrivederci..https://youtube.com/watch?v=kNWX_XWsNYY&feature=share

di Cristina Battioni

Venerdì Santo, due giorni a Pasqua, la seconda Pasqua d.Cv, la seconda Resurrezione dopo l’evento con la “E” maiuscola; non la nostra, purtroppo.

La Primavera è risorta dall’ Inverno in un esplosione precoce ed incontenibile, quasi si rifiutasse di restare, anche lei, in lockdown.

Il caldo improvviso ha ingannato anche le Peonie, rose perfette senza spine che si illuminavano con le lucciole di maggio. E’ tutto in anticipo, come se non ci fosse tempo, quasi la Natura avvertisse l’ urgenza di svegliarsi e correre.

Quando tutto diventa veloce, i sospesi rallentano. Si smarriscono. La bellezza dei giardini, dei colori, della luce disorienta, la bellezza è pericolosa perché implica un desiderio di condivisione. Mi fa male vedere i petali della magnolia cadere come barchette rosa su un mare verde, mi ricordano chi l’ ha piantata.

Ogni cosa meravigliosa in natura ed indipendente dalla nostra volontà sottolinea l’ assenza di qualcuno.

Il mondo visto da una prospettiva solitaria può offrire immagini perfette ma non attimi perfetti. E’ il limite della solitudine, anche della più collaudata o desiderata; l’ impossibilità di condividere la bellezza e da quella condivisione provare un istante, seppur fuggevole, di gioia.

Nonostante i divieti c’é tanta gente in giro, a piedi, in bicicletta, sui monopattini, le prime braccia nude nei parchi, runners che corrono, bambini che giocano; c’è tutta un umanità in fermento tra approvvigionamenti alimentari, uova di cioccolato, auguri via sms. Ci stiamo abituando, forse, alla nuova normalità, avremo mascherine colorate e feste distanziate ma, con grande determinazione, proviamo ad essere esattamente come prima.

Ma prima era prima, ieri il bollettino di guerra indicava 3.681 persone impegnate in una via Crucis pronata nelle terapie intensive e 481 decessi non destinati alla resurrezione. Vorrei avere “la fede”, ci sono giorni in cui la desidererei come un dono prezioso. Vorrei entrare in una chiesa, pregare piano, sentire sollievo. Ma non sono capace, l’ ho scordato o, forse, non ne ho mai avuto la reale predisposizione.

Teoricamente siamo tutti cattolici. La mia generazione andava a catechismo, l’ ora di religione era ancora obbligatoria, tutti abbiamo album con foto di battesimi, comunioni, cresime. Teoricamente. Non eravamo in Dad ma io, evidentemente, non ho appreso abbastanza.

Mi travesto da runner, ligia ai divieti, infilo in tasca un’ autocertificazione plausibile (spostamento dovuto a necessità di movimento fisico e acquisto giornale, senza ovviamente indicare presso “l edicola sospesa”, scrivo genericamente edicola), infilo gli auricolari https://youtube.com/watch?v=kAgF6D9VHHA&feature=share e mi isolo nella mia bolla di sapone invisibile lasciandomi trasportare attraverso viali e giardini verso Piazza Della Vittoria. Corro un po’, distrattamente, per non soffermarmi sul bello che mi provoca una sensazione agrodolce di malinconia.

Sono le 16, fa caldo, sono sudata e ho sete quando arrivo davanti al portone del monolitico ed austero palazzone grigio, fermo immagine tra i colori della nuova stagione. Sempre uguale, sigillato, un eterno Inverno di uffici chiusi. Ciononostante il portone si apre non appena avverte la mia presenza. Fa piacevolmente fresco nell’ atrio deserto, mi arrotolo la felpa sui fianchi, distruggo con un unghia la bolla di sapone e cammino senza emettere suono verso il muro della Scala B. L’ ascensore e’ gia aperto per portarmi in un tempo fermo. L’ orologio smette di funzionare alle 17, tutto rallenta; respiro.

L’ ascesa termina in un battito di ciglia, convinta di salire nel mio cubo del quarto piano, mi ritrovo inaspettatamente al piano T, eppure sono certa di non aver schiacciato il pulsante.

Davanti a me l’ edicola di Seppia è rimasta perfettamente incastonata al centro del piccolo giardino interno ma il quadro è cambiato. Il prato e’ rosa, come se i petali di tutte le magnolie della città fossero piovuti qui. Il platano si è vestito di foglie verdi pastello, le siepi di forstizie sono state potate e trasformate in palloni gialli; ad ogni angolo dei muri di protezione sono spuntate piante di peonia, perfettamente posizionate tra luce ed ombra; i fiori delicati ancora schiusi come piccole mani strette a trattenere la vita.

Qui la natura non corre, prende il suo tempo. Vedo la bellezza, mi consento di guardarla perché ogni cosa è esattamente dove deve essere per condividerla con le assenze. Seppia, con una leggera abbronzatura sul viso si sporge dal davanzale del chiosco. Noto le piccole rughe intorno agli occhi che nel sole vibrano tra il nero e un nocciola caldo e accogliente.

Sembra riposato, niente occhiaie e niente occhiali. “Buon pomeriggio Kami, ha visto la resurrezione del giardino?”, mi chiede, intercettando il mio muto stupore.

Più che una resurrezione mi sembra l’ opera di un giardiniere perfetto, se non fosse per il tappeto di petali rosa che nasconde il prato. Tolgo le scarpe da ginnastica per non danneggiarlo, la sensazione è piacevole, mi sembra di camminare su strisce di seta.

“Beh, sembra una bellissima installazione, di un grande paesaggista, sono stupefatta…”

“E’ esattamente questo, un’ installazione composta da tutta la bellezza che lei oggi vorrebbe condividere, per questo l’ ascensore l’ ha portata subito qui.”, mi spiega mentre mi offre un bicchiere d’ acqua fresca. “Grazie, sì, ne avevo bisogno. Ho sempre paura del bello”. Mi interrompe scuotendo leggermente la testa, “Lei a paura dei ricordi e contemporaneamente ha paura di lasciarli andare, non li vuole guardare ma teme che svaniscano e di non ritrovarli più'”.

E’ vero, il bello mi ricorda ciò che non è più e contemporaneamente lo fa rivivere riaprendo porte, stanze e balconi affacciati su scorci di vita chiusi a chiave.

Seppia intuisce la mia fragilità momentanea e, con arte e mestiere, mi distrae ,”Guardi questo tappeto rosa, senta l’ immaterialità, i suoi piedi e il suo corpo perdono peso, è la sensazione del volo, non è vero?”

Della sospensione“, gli rispondo in una perfetta sincronia di pensiero e suono.

“L’ artefice dell’ istallazione è seduta sulla panchina, ha costruito lei questo tappeto rosa.”

Parlando sposta la mia attenzione proprio verso la panchina ridefinita da giochi di chiaro scuro filtrati da una ragnatela d’ ombra. Una giovane donna minuta mi da le spalle, indossa una specie di foulard colorato attorcigliato attorno alla testa, e’ chinata in avanti, probabilmente sta leggendo.

“Mi perdoni Seppia ma io non credo di averla mai incontrata, si forse la sagoma mi ricorda la ragazza del secondo piano, la ragazza con i bastoncini d’ incenso e il lenzuolo bianco scritto e poi candeggiato, usato come una lavagna”. Non mi risponde ma sorride e mi indica il balcone quadrato del secondo piano.

Il lenzuolo e’ appeso, sul bianco abbagliante del cotone fiorisce una citazione dipinta a tempera :”E l’amore guardo il tempo e rise”, di Pirandello, se non mi inganno.

Quindi è proprio Ametista l’ artefice di questo quadro materico, Ametista che continua a creare parti della sua installazione seduta tra il sole e le piccole ombre della panchina. Mi avvicino galleggiando sui petali, nessun rumore, un silenzio perfetto ma pieno delle parole che si staccano dal lenzuolo e permeano l’ aria.

La ragazza con il foulard mi fa cenno con la mano, accetto l’ invito ad avvicinarmi; due solitudini volontarie, sommandosi, ne fanno una sola, piena di presenze.

“Vieni, accomodati, mi fa piacere dividere la panchina con te”, ha una voce allegra e solare antitetica al pallore e alla magrezza che evidenziano due enormi occhi neri. E’ bella, come un ritratto neorealista, e’ un essere inaspettato, un insieme di tratti e colori forti che convivono, armoniosamente, nella sua figura.

Ametista raccoglie in se tutte le età della vita, ha il volto scavato da una prematura maturità ma gli occhi grandi e vitali di una bambina, un corpo stretto lungo e ossuto da adolescente, le mani consumate e sporche di colore a tempera di un artista, la voce dolce di una mamma.

Mi siedo sui petali, vicino a lei, la osservo dal basso mentre armeggia con un filo e delle palline simili a piselli scoloriti. “Vedi”, mi mostra, “sono Lacrime di Giobbe, le ho cercate tanto e finalmente Seppia me le ha trovate. Viste così non sembrano belle, ma le infilo cercando di far combaciare le striature della buccia, guarda..ognuna e’ diversa dall’ altra, ogni lacrima è un desiderio di qualcuno, tutte insieme sono le preghiere di tutti, anche di chi non crede.”. Osservo e distinguo un rosario prendere forma tra le sue dita magre, insieme le lacrime perdono il loro aspetto anonimo di semi e somigliano a pietre lisce e imperfette.

E’ proprio un rosario, simile a quelli antichi e consumati, fatti a mano, ma le lacrime non sono sferiche, hanno delle imperfezioni, delle creste. Ametista senza smettere di infilare prevede la mia osservazione; “Ora non sono perfettamente rotonde, ma saranno le mani, le mani che le accarezzeranno, a poterle trasformare in sfere perfette. Sono le preghiere silenziose a rendere perfetto l’ imperfetto.”

Forse è questa l’ unica forma di fede che riesco a comprenderle e questa donna gentile me l’ ha offerta costruendo un oggetto semplice ma autentico ed unico, difficile da dimenticare.

“Vorrei finire questo per te, ne ho fatto uno per tutti gli inquilini della Scala B, cane compreso; ho quasi finito. Non occorre pregare, o avere “la fede”, per rendere le lacrime di Giobbe sferiche, basta scorrere la corona tra le mani e lasciarci scivolare sopra la sequenza dei pensieri pesanti, gli stati d’ animo, i dubbi, le stanchezza. Tutto ciò che è dentro scivolerà fuori, ognuno di questi rosari avrà il colore e la forma dell’ anima che lo maneggia. Serve a mettere in ordine il caos, a mettere insieme gli intervalli di ogni esistenza”

Le parole di Ametista hanno qualcosa di poetico e magico ma sono anche molto reali nel descrivere un oggetto concepito per ritrovarsi quando nessuno ci cerca. Una bussola interiore e personale.

La ringrazio, dal basso e in controluce mi sembra eterea, in dissolvenza; continuo a fissare le sue mani che scelgono ed infilano e sussurro una domanda ,”Ti ringrazio, lo terrò con me, sono certa che lo plasmerò’, magari per me sarà un pallottoliere dei ricordi o dei segmenti della mia vita. Perdonami e, ti prego, se vuoi, non rispondermi, ma tu, tu credi in qualcosa, hai fede?”

Il suo sorriso giovane si accende, potrebbe essere mia figlia eppure mi accarezza la testa come una mamma.

Mi risponde, giocando un’ imprevista contromossa alla mia curiosità, con una domanda, “Forse… e tu ?”

“Io no, non ho la “fede”, quell’ utopia salvifica, l’ho persa su una strada affollata da contraddizioni. Appartengo ad una generazione caratterizzata da tentativi; cresciuta tra lecito ed illecito, tra stereotipi da combattere e desiderio di libertà, tra sensi di colpa e obbligo di affermazione.”

In effetti ci siamo confusi tra l’ amore per sempre nel bene ma non nel male, tra un figlio si, ma, se, e quando e’ conveniente; siamo andati avanti per mimesi, tra messe di Natale e famiglie tenute insieme con l’ Attack. Nel percosso dove tutto vale abbiamo perso dei punti di riferimento senza sostituirli, forse anche la fede.

Solo dopo la mia incontinenza verbale, mi offre la sua risposta, ” No, non ho fede, ho la “mia ” fede. Credo che l’ amore non finisca in questo tempo affrettato e mal digerito ma circoli, continui a circolare, a generare energia vitale, a farsi sentire e riconoscere, basta ascoltare.”

Prende fiato, si stropiccia gli occhi e continua, sussurrando, la sua versione. “Non avendo assorbito la letteratura del cattolicesimo non riconosciamo quel tipo di fede, ma continuiamo, ciononostante, ad affrontare le salite, stanchi ma non vinti, provati ma incoraggiati dalla tenacia, dalla volontà. Talvolta abbiamo qualcuno a fianco che ci parla ancora di sole e giorni in discesa. Fino alla prima stazione, al massimo alla seconda. Poi molti si ritirano con un sorriso di circostanza, altri scompaiono nel mutismo. E, davanti a noi, soli, eccola la via Crucis, con le sue tappe dolorose e senza funivia per il ritorno.”

Ha ragione siamo preparati, laureati, cinici, pragmatici, inossidabili . Apparentemente. Pasqua era ed è il tempo delle scampagnate, dei primi colpi di sole, del mare di primavera.

Un rito pagano, a dire il vero, finché non ci ritroviamo, per caso, ad imboccare l’ entrata sbagliata dell’ Autostrada per il mare e ci scopriamo in salita sulla nostra via Crucis senza fede e senza mezzi. La festa primaverile scompare sostituita da una stagione ostile che ci costringe a cercare o inventare un riparo.

Il mio rosario è finito, Ametista realizza tre nodi in successione, lo chiude e me lo porge con un augurio, “Spero che quando lascerai questo posto di ristoro tu possa perdonarti le incertezze, le paure, il tempo che credi di aver buttato. Il tempo torna sempre, quando è il suo momento. Credi in questo.”

Mi ricompongo, sollevo qualche petalo alzandomi, mi sento meglio; lei no, vedo che il pallore è aumentato e sento l’ affanno nel suo respiro. Le restituisco la carezza e senza bisogno di parole e mi allontano verso l’ edicola.

Seppia sta riordinando i quotidiani, immagino abbia sentito e visto tutto ma, da abile guardiano del faro, si limita ad indicare la direzione ai sospesi, senza commentare. Lo chiamo io, con una scusa, “Seppia mi scusi, posso chiederle il mio giornale sospeso, penso di non salire in casa, ho trovato tutto qui oggi, anche di più”. Si sporge dal balconcino con una pila di giornali legati e ne estrae uno, apparentemente a caso. Gli porgo i tre euro che avevo infilato nelle calze di spugna, mi chino per indossare le scarpe mentre vedo l’ ombra di Ametista dissolversi verso l’ ascensore.

“Vedo che ha terminato anche il suo, non ha dimenticato nessuno, è un anima bella, di quelle che portano qualcosa e non portano mai via niente. Restano per sempre”.

Mentre mi parla gli occhi di questo uomo sempre sorridente diventano due lacrime di Giobbe nere, rotonde , perfette. Nessun sorriso, nessuna inclinazione. Sento il rumore dei suoi pensieri che non traduce in parole. Rompo io il silenzio, “Ha ragione, sembra assorbire il dolore del mondo e tradurlo in gentilezza. Spero possa stare bene, presto”. “Starà bene, sa chi è e sa dove va, non ha paura.” mi spiega senza retorica, “chi porta le croci senza esporle conosce la strada e la meta”.

Un filo di vento stempera il caldo e solleva il tappeto rosa, prendo il mio giornale e scopro che Seppia mi ha sfilato dai resi una copia di Avvenire, ritengo si sia sbagliato, gli faccio cenno ma lui mi conferma la sua scelta “Non deve essere per forza il suo giornale, ma è ciò che le serve oggi. Ricordi Kami, ieri, oggi, domani, qui si sommano e si danno un senso. Ci troverà qualcosa che lei conosce, quel qualcosa per cui lei, tutt’ altro che gioiosa, è qui oggi.. si fidi.”

Mi fido e mi incammino mentre la sua voce mi raggiunge e si infila tra le porte dell’ ascensore, “Kami, se può, se riesce, renda migliore questa Pasqua, non necessariamente buona”.

Ripercorro la città a ritroso con la mia copia di Avvenire e le lacrime di Giobbe in mano, non corro, non mi sospendo, cammino guardando i giardini. Le magnolie si sfaldano sotto il caldo precoce ma non c’ e’ nessun petalo sotto di loro.

Sono volati tutti da Ametista, come note che si ricompongono sulle righe di uno spartito generando una melodia eterna.

La bellezza sa come congiungersi in silenzio, non pronuncia addii ma crede negli arrivederci, oso crederci anch’io.https://www.avvenire.it/rubriche/pagine/la-prima-musica

Dobbiamo tacere ed ascoltare. Chiudere gli occhi per sentire il silenzio di chi non c’è più. Di chi non ce l’ ha fatta.

Trovare il coraggio di sospenderci sulla’ ultima nota. Sicuri che l’ ultima del nostro spartito tenderà il rigo alla prima nota dell’ Altro”

Da “Come Rugiada”-La Prima musica-di Rosanna Virgili-Avvenire

I RACCONTI DELLA “SCALA B” SONO RACCOLTI NELLA CATEGORIA LA SCALA B E SOSPENSIONI

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Pubblicato da cristinabattioni

Scrivo per imparare la strada

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