IL MALE DI VIVERE DELLA SCALA B
di Cristina Battioni
Dopo la morte di Ametista non sono più tornata alla Scala B.
Ho indossato il suo rosario di lacrime di Giobbe come un bracciale, talvolta mi sorprendo ad accarezzarlo, è il pallottoliere delle ore vuote.
Chiamo ore vuote quelle che lascio consumare, come un passeggero fermo ad una stazione guarda i treni passare ma non ha biglietto o intenzione di salire, li lascio scorrere, come i giorni. “Quando non sai dove andare stai ferma”, mi diceva mia nonna. E io sto ferma ma la mia mente no, si arrotola, si attorciglia tra incertezze e paure.
Si chiama stato di precarietà, quel tempo esteso in cui avverti il passato appartenere ad un altra vita, il futuro assente ed il presente precario. E’ l’ età della transitorietà, del fuori tempo; l’ essere perennemente in ritardo o nevroticamente in anticipo, sprovvista di un tempismo opportunista.
Non c’è azione e non c’e’ reazione, volutamente; solo sospensioni che portano alla Scala B. Ma anche la scala ora mi sembra una trappola, un non luogo fuori dal tempo popolato da fantasmi che si sono arresi ad essere ciò che non volevano essere.
Mi sento anch’io un “giornale sospeso”, salvato dal macero ma non ritirato. Un insieme di parole, notizie, domande a scadenza. Vale tutto ed il suo contrario nello spazio di 24 ore.
Continua a piovere su questa città in giallo ma paradossalmente grigia, non c’e’ aria di festa , né di rinascita. Sembra tutto immobile, il fuori come il dentro.
Fa sera su una giornata monotonamente uggiosa e monocolore, senza alcun entusiasmo mi perdo nel traffico della tangenziale, già intasata nei primi giorni di tana libera tutti. Non ho voglia di tornare a casa ma non so dove andare, salto la mia uscita e mi dirigo verso Piazza della Vittoria.
Benché i bar e i negozi abbiano riaperto non c’e’ movimento, qualcuno esce dagli uffici, mascherine e ombrelli. Silenzio e vuoto, come avrebbe scritto Forster.
Il senso di precarietà è tangibile, seppur nascosto da un’ apparente normalità.
Osservo il palazzo grigio ed austero, benché risalga ai primi anni ’70 da l’ impressione di un edificio ispirato al modernismo dell’ architettura fascista, rigida, compatta, severa. Il portone e’ gia aperto, mi basta spingerlo leggermente per ritrovarmi nel crocevia; scala A, scala C e vicolo cieco della Scala B.
Sento l’ eco di passi leggeri, non provengono dalle scale, sono passi di donna, brevi e costanti, scanditi dal ticchettio dei tacchi. Intravvedo una figura scomparire verso il falso muro dell’ ascensore. Un impermeabile nero scuote l’ ombrello, le gocce si depositano sul pavimento di graniglia, unica testimonianza del suo passaggio. Mi fermo e aspetto che scompaia. Non so chi sia, forse la nuova inquilina del secondo piano sospeso o solo un ombra.
Lentamente mi incammino ripercorrendo i passi della sconosciuta, le gocce di poggia depositate dal suo ombrello rendono scivoloso il pavimento, l’ ascensore avverte la mia presenza, mi accoglie sollevandomi verso il quarto piano, verso il mio ultimo rifugio.
Il pulsante del piano “T” lampeggia, non si può’ accedere.
Entro direttamente nel mio cubo del quarto piano, luminoso nonostante le nubi basse, silenzioso e vuoto come se qualcuno avesse appena traslocato. Solo che quel qualcuno sono io. Sparito il vecchio divano ad angolo, sparita la cabina azzurra del bagno Piero, le foto, il vaso; tutto è occupato da un vecchio tappeto che ricopre l’ intera superficie.
Due casse in legno accostate fungono da tavolino provvisorio su cui resta appoggiato un libro di poesie di Montale, “Ossi di Seppia”. Mi siedo un attimo a terra, cerco di spostare una cassa ma e’ stranamente pesante e tintinna, un lato e’ aperto e mostra una serie di vecchie bottiglie, semivuote o sigillate.

La cassa è piena di liquori di marca scadente, quelli che si tenevano in casa nei primi anni 80; Whisky Johnnie Walker, Unicum, Amaro Averna, Burbon, Grand Marnier. Ne sfilo una, quella di Grand Marnier, ricordo che lo usavano a casa per aggiungere aroma alle uova sbattute con lo zucchero. Ne bevo un sorso a collo, nauseante e dolciastro come lo ricordavo. Non mi inquieta il vuoto, non mi aspettavo di trovare nulla qui oggi, solo la mia precarietà.
E quella c’ e’, perfettamente rappresentata dalle poesie di Montale, dall’ alcol guasto e dal tappeto Isfahan annodato a mano che il tempo ha reso uno straccio in disfacimento, nodo dopo nodo. Precario anche lui.
Nel silenzio assoluto avverto un rumore leggero di carta; un foglio e’ stato fatto scivolare sotto la porta dell’ ascensore. A gattoni mi allungo per prenderlo. E’ un foglio bianco ripiegato in quattro, senza indicazioni di destinatario o mittente.
Lo apro, “Gentile Kami, la prego di raggiungermi al piano T, venga direttamente al chiosco, porti una bottiglia di liquore e il suo libro di poesie. La aspetto.” Prof. Seppia.
Accolgo l’ invito, non mi sento protetta dal mio alloggio sospeso del quarto piano, non lo avverto ostile ma inanimato ed anonimo. Infilo la giacca, ripongo il libro e una bottiglia di whisky ancora sigillata nella borsa e, senza voltarmi, mi imbarco sull’ ascensore per raggiungere l’ Edicola Sospesa al piano T.
Il giardino è vuoto, beve acqua dal cielo; non piovono i cristalli di Nolente, solo gocce fredde e sgradevoli. Peonie e forstizie sono sfiorite, le rose ancora chiuse, il giardino sembra un cubo verde chiuso da un coperchio grigio. Lo attraverso velocemente per raggiungere il chiosco centrale illuminato; busso alla finestrella. Aspetto. Sento Ombra abbaiare.
Nessuna risposta, busso più forte. Seppia finalmente mi apre un varco nascosto tra i cespugli e compare da un portoncino laterale. Indossa una giacca di cotone blu, un paio di jeans, profuma di lavanda. Mi introduce nel piccolo prefabbricato con un gesto gentile del braccio e con un “ciao” che non aveva mai usato.
Il chiosco all’ interno sembra piccolissimo, la scrivania laterale e due sgabelli lo occupano completamente, i giornali sospesi sono ammucchiati in un unico scatolone, il muso vellutato di Ombra appare e scompare tra le pieghe di un cuscino imbottito.
Seppia mi porge uno sgabello, ci sediamo attorno alla sua scrivania, perfettamente ordinata e spoglia. “Vieni, accomodati, almeno qui la pioggia crea un rumore piacevole, hai portato il liquore ?”, rovisto nella borsa e gli porgo una bottiglia di scotch decisamente invecchiato . “Ok, ho due bicchieri, ci serve per un brindisi”. Comincio a non capire ma il guscio di Seppia è accogliente, profuma di lavanda , tabacco ed inchiostro, il bassottino sembra sereno con gli occhi semichiusi cullato dal rumore attutito della gocce . Lo spazio mi contiene e mi corrisponde, c’e’ empatia tra dentro e fuori, decido di affidarmi .
Il custode dell’ edicola si scompiglia il ciuffo di capelli grigi, si toglie gli occhiali e abbandona la postura da mezzobusto televisivo. Prima di permettermi di parlare apre il Chivas ancora sigillato, riempie un dito nei due bicchieri e mi invita a fargli compagnia; “Anche se fa schifo, non importa, sempre meglio di acqua sporca”. Sorrido, anzi rido…”Pure in rima oggi, ma che succede?”
Beviamo, il liquido fa schifo, e’ alcol puro, distrugge le mucose e brucia la trachea. Scuoto la testa tossendo. “L’ hai vista vero ?” mi domanda appoggiando il viso triangolare sul palmo delle mani. “Chi, chi dovrei aver visto? La nuova inquilina del secondo piano ?”
“Esatto, ma non è l’ inquina del secondo piano, è Cassandra, la proprietaria di questo spazio.”

Non dovrei stupirmi, troppe cose reali non comprendo, figuriamoci una figura fantasma proprietaria di un non luogo; mi verso altre due dita di alcol mentre comincio a sudare nell’ aria umida e viziata del chiosco.
“Chi è Cassandra, come può essere la proprietaria di uno spazio che non esiste se non per chi ci si rifugia e per te, perché tutto sembra in fase di sgombero, compresa la tua edicola”?
Sorride, si allunga per accarezzarmi la frangia e la mente, poi, finalmente mi risponde ; ” Ciao Kami, lascia stare Cassandra, io non mi chiamo Seppia, ma quando sono arrivato qui mi sentivo un frammento buttato nella vita tra cocci di bottiglia. Ero un osso di Seppia, come quelli del libro di poesie che hai nella borsa. Secco e corroso dalla vita, nessun guizzo di luce all’ orizzonte, solo ombra.
Ero un giornalista, una vita fa, avevo una mia trasmissione, ho diretto un giornale, scrivevo, avevo un’ immagine perfetta nella vita perfetta.”
Comincio a spiegarmi la posa da mezzobusto angolato, lo sguardo affascinante studiato per oltrepassare lo schermo, l’ eleganza da intellettuale con cui salvava i giornali e li sceglieva per ognuno di noi.
“Poi…?”, gli domando senza dissimulare una certa inquietudine, “Poi è arrivata la voragine, la discesa dall’ alto, il cambio di proprietà, la cessione dei diritti delle mie dirette, la Pay tv, qualcuno che costava meno ma doveva prendere il mio posto. Ed è cominciata la discesa, più mi ribellavo più cadevo sbattendo su scogli e tagliandomi con pezzi di vetro abbandonati. Sicuro che non sarebbe finita mai, mi sono reso conto che stava finendo tutto, anche l’ identità che mi identificava. Quando ho messo in vendita la mia casa sono arrivato qui, in Piazza Della Vittoria 1, allo studio notarile. Da quel giorno, dal due giugno 1986 sono qui.”
Quest’ uomo è qui da 35 anni, sospeso in un tempo analogico, senza orologio. Ha osservato il mondo esterno scorrere attraverso i quotidiani. Il Chivas e la sensazione imminente di sgombero vincono il mio tentativo di non fare mai domande.
” Quindi Seppia, o quello che vuoi, hai curato il male di vivere in un’ edicola?” gli domando perplessa.
“No, non l’ ho scelta, l’ ho trovata o lei ha trovato me. Un’ edicola era l’ unico posto in cui mi sentivo a casa, tra il profumo dei giornali, sapendo la crisi che li stava cancellando, sapendo che ogni reso conteneva articoli scritti da qualcuno che ci aveva passato il giorno e la notte per metterli insieme per vederli poi mandare al macero nel giro di 12 ore. Con i giornali non letti ero stato mandato al macero anch’io, come tanti altri colleghi. Le nostre parole, scelte con cura, i titoli corretti e rivisti fino all’ ultimo istante, le ricerche, gli sforzi.”
Io non mi ricordo il suo volto, probabilmente la sua trasmissione non apparteneva ai miei palinsesti televisivi di bambina, forse ha qualcosa di famigliare perso e confuso tra migliaia di immagini, ma, osservandolo, tutto ciò che dice è credibile. La sua storia ed il suo essere coincidono perfettamente.
” Quindi come ti chiami, se puoi dirmelo?”, sorride con la sicurezza di chi ha smesso di volersi svelare, “Chiamami Marco, come mi chiamavo non importa più, perché quello di un tempo non cè più, adesso sono quello che vedi, un giornalaio, ex giornalista, che non ha smesso di leggere e raccontare. Il tempo sospeso qui mi è servito per osservare ciò che avveniva fuori attraverso i dispersi, voi. Voi siete stati un filtro, cercavate e io trovavo le risposte. Ho imparato a leggervi e poi a scrivervi, ed ora ho finito.”
“Finito cosa, Marco?”, apre una mano e mi mostra una chiavetta; “Il mio romanzo, è qui dentro, dovevo chiudere con il passato per esaminarlo, dovevo trovare domande nuove per confutare vecchie risposte.”
La sua caduta è finita, accarezza la chiavetta come la cosa più preziosa che esista, Marco non è più sospeso, ha usato lo smarrimento per svoltare, per ricostruire un se stesso che il vecchio ruolo aveva soffocato. Si muove e parla con la fluidità di chi galleggia senza avere bisogno di punti di ancoraggio, di chi non combatte il male di vivere ma ha imparato a conviverci in 30 mq.
Quella chiavetta mi appare la chiave che chiude la cantina dei rimpianti e delle vecchie certezze inadeguate ed apre uno spazio nuovo, maturato ed invecchiato, finalmente indifferente al tempo ed alle aspettative.
“Ne sono felice, ma ora che farai, noi che faremo?”. Per la prima volta esita prima di riuscire a confezionarmi una risposta.
“Io ho finito la mia ricerca, giorno dopo giorno, resa dopo resa, mi sono dato il mio tempo, sono stato sincero, perdente o vincente non ha più importanza. L’ editore ha accettato di pubblicarmi, è tempo di tornare fuori, indipendentemente dal successo o dall’ insuccesso, posso uscire perché sono io, so cadere, so stare fermo, so accordarmi al tempo, a qualunque tempo. Non devo più coincidere con la mia immagine per non deludere e non deludermi. Sono sopravvissuto. Non ho più paura nemmeno del mio giudizio. So perdonarmi. So perdere. Quindi devo andare.”
Lui può andare, la sua ricerca di equilibrio è finita, accetta di essere un funambolo nel tempo incerto che prosegue fuori da qui. Ma l’ Edicola Sospesa, gli inquilini rifugiati, Ombra, Nolente, Stante… chi rimarrà a leggerci e a consegnarci giornali salvati e risposte per salvarci?
Provo a domandarglielo con un sentimento di tristezza che è già nostalgia, “E di tutti noi, di quelli che verranno che ne sarà, chi sceglierà i quotidiani, chi accoglierà i dispersi dopo di te?”
Non mi risponde, mi invita ad affacciarmi al balconcino del chiosco; “Guarda, vedi qualcosa? Senti qualcosa?”, vorrei rispondergli silenzio e vuoto ma mi intercetta il pensiero. “Esatto Kami, silenzio e vuoto, nella Scala B non c’ e’ più nessuno ora, ogni appartamento sospeso è stato lasciato, questo turno è finito, il prossimo non è più di mia competenza”.
“Ametista è morta, era malata, per questo se n’è andata, ma gli altri ?”, replico in cerca di spiegazioni.

“Ametista era qui solo per ritardare il tempo, aveva bisogno di un luogo libero dalla dittatura degli orologi per ritrovare una sua fede, per trovare le parole che raccontassero ai suoi figli che era solo tanto stanca, che una sera si sarebbe addormentata prima di loro solo perché è bello dormire e sognare. Qui aveva trovato parole vere e comprensibili per spiegare il suo lungo sonno come un tempo buono per lei, rassicurante per i suoi figli.”
Con un dito indica gli altri piani mentre racconta, sottovoce, “Gli altri non ci sono, Nolente si trasportava qui nei brevi momenti in cui la sua mente riusciva a ricordare qualcosa, una poesia, una canzone, un dolore, per trattenere quel poco che la sua malattia non avesse già resettato. Era inevitabile che dimenticasse anche questo posto, ora chissà chi è, ora che l’ Alzheimer ha cancellato tutte le sue età.”

Già chissà chi è ora, non sempre l’ inconsapevolezza è un male. Spero che l’ oblio la renda più serena della nostalgia.
Resta solo il Notaio, Il cigno grigio in transito tra la scala A e la scala B.
Gli indico io il terzo piano, la porta finestra è l’ unica aperta, “Il notaio non se n’è andato, vero?”

Marco sospira prima di parlare, alza leggermente le spalle, gli zigomi si contraggono evidenziando piccole rughe intorno agli occhi neri e umidi.
“Stante non se ne andrà mai, è lui l’ unico sospeso. E’ lui che vi porta qui, vi traghetta alla Scala B, per il suo bene, talvolta per il vostro. Avere qui i “precariamente” fragili, in qualche modo, gli serve. Attraverso il vostro malessere giustificava la sua stasi.
Voi, noi, i caduti, quelli rotolati da una vita imperfetta ad una vita difficile ed escludente, eravamo per lui prova di ciò che non sarebbe stato in grado di rischiare.
Nel vostro male di vivere temporaneo cercava la risposta al suo non vivere, se non nel ruolo di confort zone che altri gli avevano apparecchiato, negandogli qualsiasi volo.”
Quindi per paura di cadere Stante si nega il volo osservando le cadute degli altri, le ali si sono atrofizzate ma la libertà che urla nella sua mente viene metodicamente messa a tacere da gesti automatici quotidiani.
“Avrai notato,” sottolinea Marco, “che solo qui e in relazione con qualcuno di noi , si lascia andare per un istante ad immaginare una vita che gli appartiene, riprende colore, si toglie le scarpe e raramente sorride senza imporselo. Poi, appena se ne accorge, si ricompone, rigido e grigio come il palazzo e torna alla Scala A, al sicuro”.
Tutto torna, siamo passati tutti dal Notaio prima di essere trovati dalla Scala B.
Ci siamo finiti tutti dopo un lascito testamentario, un testamento biologico, un atto che sanciva, con senso premonitorio le nostre volontà. Bizzarro come chi pensa di non avere futuro si preoccupi proprio di lasciare tutto a posto per il futuro. E’ un controsenso o, forse, l’ ultimo modo di chiedere aiuto o di non arrendersi.
Fa caldo all’ interno del chiosco, Marco si toglie la giacca, apre il portoncino laterale per permettere all’ aria umida di rinfrescarci i pensieri. Ombra si solleva stancamente dal suo cuscino e trotterella fuori per rotolarsi nell’ erba bagnata.
Perché Marco prima di andarsene ha voluto raccontarmi ciò che forse non volevo sapere, perché prima di andarsene mi rivela cocci di vite che non servono più?
Non mi da il tempo e il modo di domandare, mi precede, “Kami dovevo almeno darti la chiave di lettura di questo tuo tempo e di questo luogo prima di farti una proposta, non e’ una mia idea, anzi non la condivido, ma se tu volessi prendere il mio posto…secondo Cassandra saresti perfetta, pensaci.”
Io al suo posto, nell’ Edicola Sospesa, a salvare le parole buone dal macero, a leggere le persone per trovare le loro risposte? Certo sarei fuori da un mondo che non mi corrisponde, al sicuro in un lockdown volontario ed inviolabile…ma no, qualcosa è fuori squadra, la sua domanda che non è sua ma di “Cassandra”.
Mi sento lusingata, incuriosita ma inquieta, mi alzo con uno scatto nervoso, prendo la borsa e rispondo con un piede già fuori, nell’ erba bagnata; “No, non credo, non capisco, c’e’ confusione nei miei pensieri e nelle mie sensazioni, e chi è Cassandra, perché mi vuole qui?”
Marco mi prende sottobraccio per rassicurarmi, Ombra scodinzola alla ricerca di carezze, “Pensaci, hai tutto il tempo, io sarò qui fino al 2 giugno, fino ad allora mi troverai qui, per insegnarti o solo per spiegarti ciò che non avrai già capito da sola.”
Lo guardo prima di andarmene, nell’ iride bruna rivedo piccoli bagliori di sole, leggo che va tutto bene. “Ok, ci penserò e comunque tornerò a salutarti, oggi non è il giorno.” Mi stringe la mano con una presa delicata ma sicura, ” A presto, guarda nella borsa quando sarai là fuori, non ho ancora perso le buone abitudini”. Mi allontano mentre si alza il vento che scoperchia il cubo verde, le nuvole viaggiano mentre le porte dell’ ascensore si chiudono.
Mi ritrovo nell’ androne, il mio cellulare riprende il segnale, sono le 18.20. Devo sbrigarmi prima che inizi il deflusso dagli uffici. Mi allontano velocemente da Piazza della Vittoria, salgo in auto mentre il traffico comincia ad intasare le strade di afflusso alla tangenziale. Al primo semaforo rosso infilo una mano nella borsa, sento un rametto di lavanda usato come segnalibro nella mia raccolta di Montale. Il libro si apre da solo su “L’ odore dell’ eresia”.
“E senti allora,
se pure ti ripetono che puoi
fermarti a mezza via o in alto mare,
che non c’è sosta per noi,
ma strada, ancora strada
e che il cammino è sempre da ricominciare.”
L’ odore dell’ eresia-Eugenio Montale-Diario del ’71 e del ’72-Feltrinelli
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